lunedì 30 maggio 2011

Il new dandy: per un uomo intraprendente, grintoso, “rockmantic”.







Consapevolezza individuale, conciliazione di bellezza e moda, mistero e aria intellettuale, apparente distacco dalla realtà: tutto ciò è l’uomo “new dandy”, colui che esprime uno stile che viene da lontano, che ha gusti, ma non pietrificati, e che è capace di creare un mix sapiente di originalità e classico, a volte sforando volutamente l’eccentricità, per non apparire mai il semplice “trendy snob” della domenica. Il new dandy si ispira al passato, all’atmosfera decadente ma nutrita di edonismo e  amore malinconico per la vita fugace; è enigmatico perchè rompe gli schemi e ne crea di nuovi, rifiutando da sempre la falsa aristocrazia e il perbenismo borghese, i suoi valori sterili dell’utile e del guadagno.  Infatti nella vita, come l’esteta di fine Ottocento, il new dandy è colui che ostenta eleganza e ricercatezza, contro la volgarità e l’arroganza borghese; si erge al di sopra delle masse, infrange il moralismo dominante e, anche solo con il proprio aspetto e stile provocatorio, conserva un grande valore di contestazione, accompagnato dal culto dell’arte come forma stessa di vita, come sfida al mondo materiale che ha messo al margine l’incanto e la sacralità dell’arte. E qual è il modo migliore di fare della propria vita “un’opera d’arte”, come afferma l’intramontabile Oscar Wilde, se non iniziare ad essere un’opera d’arte? La risposta viene data certamente dalle collezioni primavera-estate 2011, che portano in passerella un uomo classico, ma innovativo e sfrontato, dandy per l’appunto. L’equilibrio perfetto tra formalità e casual personalizzato è stato raggiunto certamente dalla collezione Gucci di Frida Giannini, in cui il valore del dettaglio e la creatività disinvolta fondono al meglio la raffinatezza impeccabile allo spirito urbano più eclettico: un lusso senza tempo, tra seta ultraleggera, denim dal taglio classico e doppipetti. I giochi di colore vanno dalle diverse gradazioni di blu ai toni della terra, fino ai grigi polverosi da “poeta maledetto” e ai nuovi cromatismi sul rosso delle texture pregiate. Ma non solo, la naturale eleganza del bohèmien si esprime anche nello stile più “scanzonato” da viaggiatore instancabile e ironico, come nei modelli Enrico Coveri, Kenzo e Versace, dove spopolano i quadri e le righe come vero e proprio must di stagione anche nelle giacche e negli immancabili smoking serali. Insomma, un’eleganza statement si, ma che va ben oltre le regole, e lo fa con stile e nonchalance! La vanità senza limiti si unisce alla tradizione anche nelle sfilate “british post punk” di John Richmond, un concentrato di capi unici e nel complesso austeri, che guarda all’uomo grintoso che non ha paura di rischiare, basti notare i contrasti abilmente ponderati tra stile futuristico del nylon e dei tessuti tecnici uniti alla pelle e alle pellicce da vero rocker. E’ la rivincita dell’intellectual-chic , da Wilde a D’Annunzio e Baudelaire, che da vita ad una perfezione sofisticata ma stravagante, con una tendenza al gusto rétro ma anche rock e romantico, potremmo definirlo “new rockmantic”, in cui la passerella è illuminata da un bagliore notturno, immersa in un’atmosfera di ambiguità enigmatica, in cui l’uomo esibisce la propria diversità “superiore” e si diverte a stupire, avanzando con stile verso il successo.

Una stagione fluo ed eccentrica, il protagonista è il Colour Blocking!

“Il colore mi possiede. Non ho bisogno di tentare di afferrarlo. Mi possiede per sempre, lo sento; io e il colore siamo tutt’uno”: questa celebre frase del grande pittore Paul Klee potrebbe essere considerata una sorta di manifesto della prossima primavera-estate, una stagione di moda all’insegna del colore, del colore allo stato puro, tra vernici lucide e trasparenze. Se non avete ancora acquistato qualcosa di fluo, in particolare un immancabile accessorio macro, siete giusto in tempo per stare al passo con le tendenze, che riprendono un po’ i must dei decenni precedenti, a partire dagli anni ’70.  Il design è infatti minimal e geometrico, ma la semplicità delle linee, che segue un canone di misura all’insegna della semplicità, è perfettamente controbilanciata da un’esplosione di colori: si proietta così un’immagine spaziale che rompe con l’ambiente circostante per rimanere impressa, ed è impossibile che impallidisca o svanisca nell’immaginario dello spettatore. E’ proprio questo l’obbiettivo del “colour blocking”, rendere  l’outfit  dirompente, che non risulti per niente timido o insicuro ma anzi, pronto ad accostamenti del tutto insoliti, per una donna provocatrice che effettivamente può permettersi questi contrasti netti e “vitaminici”. Il tripudio di colori da la possibilità di sperimentare sempre nuovi accostamenti, ma attenzione! Il monocolore non dovrà essere abbinato con un neutro bianco o nero, ma con un colore altrettanto forte, magari meglio se un complementare del primo, un po’ come le nuove pochettes bicolore Fendi. E’ ora di dire addio al total black che ci ha accompagnato in questi mesi freddi e impegnati, per buttarsi nel brio e nel divertimento della primavera e delle prossime vacanze, un’atmosfera già palpabile nelle ultime sfilate “fluo” di Milano, New York e Parigi: mettiamo da parte le tinte tenui e gli accostamenti armonici per dare il benvenuto ai sgargianti fuxia, rosa shocking, bluette, verde acido e così via, dagli occhiali da sole in stile vintage alle scarpe e alle borse con dettagli in pvc, che enfatizzano ancora meglio questa inclinazione very pop che parte dalla strada. E’ proprio a quest’origine street style che si attiene anche la nuova collezione Killah, unendo colorazioni fluorescenti a stampe elettriche: un total look multicolor che fa proprie le tonalità aggressive e le forme vivaci per dare una nuova luce alle giornate della metropoli. Ma l’arancio, il lime e il blu elettrico non si fermano al clothing, investono anche il beauty, con ombretti e rossetti neon che rendono il viso vivace e fresco, illuminandolo e reinventando il make-up, per non parlare degli smalti, su unghie rigorosamente corte: le nuances più gettonate sono il giallo canarino e il verde acido, una sorta di gara a chi mostra la tinta più vistosa e improponibile. Potete sbizzarrirvi come meglio credete ma appunto, fatelo, perché la parola d’ordine della prossima stagione è stupire, non passare inosservate, ed esaltare la bellezza inusuale e non convenzionale, per puntare sull’eccentricità e dare vita a un glam tutto nuovo.

No al Sanblasting method: Moda killer o dalla parte dei lavoratori?

I jeans scoloriti, dall’aspetto vissuto, non progressivamente scoloriti dalle abitudini e dai gesti quotidiani, possono certamente dare un bell’effetto, ma pochi sanno che possono uccidere: non chi li indossa, ma chi li produce. Nel Gennaio 2011 è partita la campagna internazionale contro il processo di sabbiatura, con cui il denim, il tessuto del jeans, assume uno stile vintage. Questo metodo, definito “sandblasting” è il trattamento più a buon mercato e ottimo dal punto di vista stilistico poiché produce i risultati migliori: consiste infatti nello sparare la sabbia ad alta pressione attraverso un compressore, e l’operaio può così manovrare l’effetto sul tessuto in maniera molto precisa. Insomma, un tocco in più a cui gli amanti del jeans scolorito non possono proprio rinunciare, ma che purtroppo ha effetti negativi inimmaginabili: gran parte dei lavoratori che praticano il metodo sandblasting si ammala di silicosi. Infatti, attraverso l’inalazione delle polveri che contengono la silice della sabbia,  viene contratta molto facilmente questa malattia, che risulta irreversibile, incurabile e spesso mortale. In Turchia il processo di sanblasting ha avuto inizio nel 2000 ed è stato bloccato nel 2009, dopo le denunce di sindacati e associazioni, quando purtroppo si era già stimata una percentuale di affetti da silicosi che superava ben il 50% dei lavoratori. I morti accertati da Novembre 2010 sono 44 e nonostante il Ministero della sanità abbia deciso di fornire (giustamente) cure gratuite, i produttori si sono limitati a trasferire gli ordini di sabbiatura verso altri paesi, come se in tal modo venisse risolta magicamente questa condizione drammatica dei lavoratori. La campagna contro il sandblasting method è portata avanti da Clean Clothes, una rete di organizzazioni sindacali e organizzazioni non governative europee, e ha suscitato un’eco vastissima. La maggior parte dei jeans slavati destinati alla vendita in Europa verrebbero trattati in paesi molto poveri come il Bangladesh, l’India, la Cambogia, il Messico, e soprattutto senza alcun riguardo per i diritti dei lavoratori: i laboratori di sabbiatura non sono altro che l’ultimo anello della filiera di produzione, in cui i controlli sono davvero scarsi. Basti pensare che il “tetto”previsto dalle direttive comunitarie per la percentuale di silice è dello 0,5%, mentre la sabbia che viene utilizzata in questi paesi ne contiene fino all’80%, per non parlare della totale mancanza delle misure protettive fondamentali, come semplici  guanti, tute o mascherine. Ciò a cui mira questa campagna è mettere fuori legge la sabbiatura, non acquistare jeans sabbiati e in particolare far pressione sulle aziende del settore tessile in modo che aboliscano definitivamente questa tecnica; mira dunque a concretizzare l’appello ai grandi marchi, a cui alcuni hanno già risposto. Levi-Strauss ed H&M hanno annunciato che bloccheranno la vendita di jeans sabbiati, Gucci ha elaborato una strategia per abolire il sanblasting method dalle sue fabbriche, e Pepe Jeans ha sviluppato da tempo una “politica sociale corporativa” in materia di salute e sicurezza: nei lavaggi utilizzati per i jeans, Pepe Jeans dichiara infatti che le fabbriche con cui collabora non fanno uso di metodi di invecchiamento che utilizzano la sabbia, ma sfruttano la pressione dell’acqua, tecnica totalmente priva di rischi. Non vi è stata invece alcuna risposta da altri big come Cavalli, Armani e Dolce&Gabbana.  E’ proprio a loro che è destinata la “tasca virale”, il quale logo è appunto “Nuoce gravemente alla salute”. Se quindi durante lo shopping vi dovesse capitare per le mani un paio di jeans sabbiati, occhio alla tasca posteriore, in cui potreste decidere voi stessi di applicare questa etichetta poco convenzionale, non per questione di gusti, ma per questione di diritti umani, per dire basta ai jeans che uccidono e soprattutto per dire basta alle aziende che sfruttano la manodopera a basso costo per accumulare profitto a danno di lavoratori ignari dei rischi che corrono ogni giorno.

Ironia e femminilità, ambiguità e provocazione…il tormentone burlesque.

Un bicchiere da cocktail di dimensioni gigantesche, luci soffuse accese, inizia una melodia “ammiccante”. Non è la nuova pubblicità del Martini, ma l’atmosfera tipica di uno spettacolo “burlesque”, il palcoscenico in cui la donna riscopre se stessa come creatura misteriosa ma allo stesso tempo “civettuola” e  diva, niente a che vedere con la volgarità. Dita Von Teese, eco vivente della leggendaria Betty Page, ha fatto scuola, e ha certamente dato filo da torcere a tutti coloro che la vedevano come un fenomeno retro da strapazzo, una sorta di maschera carnevalesca (seppur bellissima) che dura tutto l’anno. Tuttavia la giunonica Von Teese ha inaugurato questo tormentone originario della Belle Epoque anche all’interno della moda, come modella d’eccezione per vari stilisti, e come musa ispiratrice per collezioni di intimo che sfilano (e si sfilano) ad arte. Il fenomeno burlesque oggi impazza dappertutto: in particolare dopo la recente uscita dell’omonimo film, con l’intramontabile Cher e la camaleontica Christina Aguilera, il “New burlesque” si è fatto strada, sia come fenomeno d’intrattenimento, non più riservato esclusivamente all’universo maschile, sia come vera e propria attività fisica. Anche in Italia infatti grazie alle donne, dalle fanciulle poco più che maggiorenni fino alle madri di famiglia alla soglia dei quaranta, aumentano le iscrizioni ai corsi di “sexy fit”, in cui tutte si calano nella parte della diva ani ’50 per scoprire e riscoprire il piacere del gioco un po’ “ambiguo” ma anche motorio, un’alternativa alla solita attività della palestra: è un nuovo modo per apportare benefici alla propria tonicità ma anche all’autostima. Non solo, tra poco uscirà il nuovo reality dedicato a questo style d’altri tempi, “Lady burlesque”, in cui ragazze e donne speranzose si sfideranno a colpi di boccoli e boa di struzzo. In effetti nel burlesque è immancabile il supporto di guêpière strettissime in vita, piume e altri accessori scintillanti, tutto parte integrante di questo vero e proprio must, che va ben oltre il semplice sfoggiare la lingerie: certamente questa seduzione ironica e dal sapore vintage non può fare a meno di reggiseni a balconcino, corsetti che tolgono il fiato, coulotte altissime e fascianti, tutti ideati per modellare ed enfatizzare le curve femminili, ma tutto ciò è solo la base del burlesque, uno stile che incarna la vera arma della femme fatale, la seduzione. Com’è che questa forma di spettacolo ormai datata, provocante e satirica, è tornata in auge a XXI secolo ormai inoltrato? Attraverso l’eccesso, l’ironia e un tocco di comicità, il burlesque ha la capacità di far sentire la donna una vera star sensuale, con le sue curve, i suoi difetti, ma anche la sua capacità di non prendersi troppo sul serio. La comicità che caratterizza la seduzione è fondamentale nello strip retro, in cui si va ben aldilà del trionfo di autoreggenti, frangette bombate e labbra di fuoco, e ha a che vedere con un uso “glam” del tempo. Si, proprio il tempo. Perché? La risposta è ben evidente in una delle opere del filosofo danese Kierkegaard, “Diario di un seduttore”: il vero seduttore è il seduttore psichico, e il suo principale strumento di seduzione è appunto il tempo, modulato delicatamente. Il suo obbiettivo non è possedere fisicamente, ma mentalmente, frutto di un egoismo raffinato che trae piacere nel condurre a un soggiogamento totale senza a sua volta essere soggiogati, rimanendo sospesi in un’atmosfera coinvolgente ma indeterminata, proprio come quella evocata dalla pin up burlesque: «un'immagine che [...] non acquista mai contorni e consistenza, formata costantemente, ma non viene mai compiuta», e perciò non già un «individuo particolare, ma la potenza della natura, il demoniaco, che non [...] smetterà di sedurre come il vento di soffiare impetuoso, il mare di dondolarsi o una cascata di precipitarsi giù dal suo vertice.»


Emancipazione femminile, evoluzione nello stile.

I cambiamenti sociali, si sa, non sono circoscritti, ma vengono riflessi in ogni sfera del reale e non solo: prima di tutto si manifestano nella sfera artistica, in quel mondo che lancia un ponte tra sogno e realtà a tutti, ma che pochi possono comprendere, interpretare ed intuire prima che il cambiamento venga a “bussare”materialmente alla nostra porta. La moda è un’espressione sottile di questa conoscenza più originaria e sensibile, precorre le atmosfere che viviamo e che vivremo, ha un “fiuto” particolare. Nel corso del ‘900 questa qualità quasi preveggente si è manifestata in una delle lotte fondamentali dell’umanità per l’uguaglianza e la democrazia, quella per l’emancipazione femminile; il ruolo della donna ha compiuto un percorso in continua ascesa, che nel mondo della moda ha corso lungo quel doppio canale per cui le tendenze anticipano ma allo stesso tempo confermano il perenne riassestamento sociale. Il ‘900 è stato un secolo che l’uomo ha quasi dovuto rincorrere per stare ai tempi, un po’ come la donna stessa e la sua affermazione che minacciava di spostarlo dal podio. Dalla seconda rivoluzione industriale tutto ciò fu molto evidente: in Inghilterra le fabbriche tessili iniziarono a determinare una grande trasformazione nel vestire, fornendo buoni tessuti a prezzi sempre meno elevati e moltiplicando quelli leggeri, colorati, esotici e decorativi, decisamente adatti per l’estate e i sabati danzanti, per una donna che ormai poteva frequentare ambienti mondani di ogni genere. Tra il 1890 ed il 1910  l’affermarsi della fabbricazione in serie abbassò i costi e rese accessibili gli abiti alla moda anche ai ceti meno abbienti, soprattutto dopo la distribuzione sempre più diffusa nei grandi magazzini. La moda viene presentata in tutto il suo splendore dagli anni ’50 in poi: il mondo viene travolto dal “New Look” del francese Christian Dior, tra spalle scoperte e scollature vertiginose, e Parigi diventa la capitale della moda; con l’arrivo del rock n’ roll nelle sale da ballo c’è spazio solo per reggicalze, mini abiti e soprattutto minigonne, grazie alla novità introdotta dalla stilista Mary Quant. La moda diventa sempre più unisex, prende ispirazione più dalla strada che dalle sartorie e l’etnico domina su tutto, anche grazie alla libertà morale e sessuale veicolata dagli hippies, i primi a rifiutare il consumismo e…la biancheria intima! Negli anni ’70 il punk domina Londra e non solo, e il livello di inibizione si abbassa sempre di più non solo per le minigonne, ma anche per le calze rete e i tacchi alti. Negli ultimi decenni la mentalità comune ha subito un’apertura notevole, in particolare da quando la donna ha iniziato ad essere sempre più presente nel mondo del lavoro: compaiono i pantaloni e la gonna pantalone, tutti capi funzionali nella quotidianità e nella battaglia femminile per l’uguaglianza dei diritti. Una delle figure emblematiche nella rivoluzione del concetto di femminilità è stata sicuramente Coco Chanel, che seppe interpretare al meglio lo spirito modernista della sua epoca, prefiggendo una nuova immagine della donna, libera, indipendente dall’uomo, moderna e all’avanguardia: ha saputo dar voce al bisogno di un’effettiva riforma sociale del ruolo e dello stile di vita femminile, unendo eleganza e raffinatezza alla praticità e al comfort. Negli ultimi decenni nella moda non si può più distinguere uno stile preciso che definisca la donna, perché la donna non è più in gabbia, può permettersi tutto, dall’essenzialità alla frivolezza, e il ruolo dello stilista è ormai quello di un consigliere che non impone nulla: si distruggono le forme, si miscelano i colori, si fondono tendenze contrastanti, all’insegna di una nuova modalità di pensiero, più dinamica e meno bigotta. Il tempo scorre inesorabilmente, e nel nostro mondo non c’è più spazio per una ragione restrittiva e costrittiva che orienti le nostre scelte, tutto è possibile e tutto cambia. L’evoluzione del ruolo femminile nella società ci dimostra che legarsi troppo al passato e all’abitudine, rimanendo scettici e timorosi, ci lascia fermi al punto di partenza senza possibilità di intravedere una meta, di reinventarci e progredire: questo cammino riguarda tutti ma…in tacchi ha indubbiamente più stile.


Il “must” jeans, da icona rivoluzionaria a simbolo della globalizzazione.

Cosa ci risponderebbe la più sfegatata delle fashion victims se le dicessimo che i suoi irrinunciabili jeans non sono altro che semplici pantaloni da lavoro? Probabilmente ci farebbe una smorfia di sdegno e continuerebbe a dedicarsi alle sue compere, jeans compresi.  Ma la realtà è proprio questa, nonostante sia poco conosciuta: i cosidetti “blue-jeans” sono nati come pantaloni dal tessuto leggero e particolarmente resistente, ideali per i marinai di Genova. Perché proprio Genova? Ecco un’altra curiosità. I jeans, come tutti invece potrebbero pensare, non sono nati in America ma in Italia. Risalgono esattamente al XV secolo, come stoffa utilizzata per coprire la mercanzia navale ed esportata attraverso il porto antico di Genova, che in quell’epoca era il simbolo del fervore commerciale: è proprio da qui che i blue-jeans inizieranno il loro lungo viaggio, che dura ormai da più di cinquecento anni!  Blue ne indica il colore,  jeans la città d’origine ( dal francese “Bleu de Gênes” ), mentre l’appellativo “denim” sta per “de Nîmes”, la città da cui proveniva questa tela color indaco. I commercianti di Nîmes scelsero il porto di Genova come punto di partenza per le merci destinate al Nord America. E’ qui che viene prodotto questo semplice pantalone da lavoro, su particolare richiesta della comunità mineraria, e lanciato a S. Francisco da Levi Strauss; le caratteristiche base del jeans moderno ci sono già tutte: taglio a cinque tasche, bottoni, impunture, rivetti. Nel dopoguerra diventa un indumento da tempo libero, comodo e colorato, per poi tornare nella nativa Europa assieme al boom del casual, diffuso tra i giovani dai primi idoli del cinema (Marlon Brando, James Dean…) e del rock n’ roll. La storia dei jeans continua, segnata dal proibizionismo americano di indossarli a scuola: saranno riammessi all’università ai tempi di Bob Dylan. Il jeans incarna progressivamente la radicalità della ribellione giovanile, dell’insubordinazione urbana; è indice della volontà giovanile di prendere le distanze dalla monotonia del mondo adulto, dall’ ipocrisia di una società omologata. Non a caso, i “sessantottini” scelgono i blue-jeans come uniforme del loro “esercito” per le lotte ai diritti e alla libertà individuale, entusiasmati dall’esplosione del movimento hippy. In particolare, verrà adottato a divisa collettiva il mitico modello Levi’s 501, simbolo dell’ideologia rivoluzionaria, dell’antimoda e dell’anti-perbenismo conservatore e borghese. Allora com’è stato introdotto nel mondo della moda? Dal ‘68 il jeans diventa il primo capo globalizzato, e oggi lo è più che mai, senza pensabili flessioni in tal senso: con il passare dei decenni si è trasformato, seguendo più le fantasie passeggere degli stilisti che l’entusiasmo delle contestazioni politiche. Con il declino di questa atmosfera effervescente infatti, i brand predominanti nel panorama commerciale si impadroniscono del jeans per introdurlo nell’ “armadio medio” della popolazione, effettivamente riuscendoci: avrà un grande successo sopratutto il jeans firmato, data la novità che rappresentava. Dagli anni ‘80 il jeans è diventato un indumento di “lusso”, dato che gran parte delle ditte di abbigliamento produce una propria linea di jeans, da Valentino a Fiorucci, da Armani a Gas, accanto alle leggendarie Levis, Lee e Diesel. Insomma, jeans è diventata “la parola più globalizzata assieme alla pizza”, come afferma Remo Guerrini nel suo libro “Bleu de Gênes”. Quali sono gli elementi che hanno proiettato in maniera così generalizzata i jeans sul modo di vestire e sull’intera società moderna? Sicuramente è un fenomeno che riflette la costruzione dell’identità personale nei decenni, riattraversandone i mutamenti sociali: dall’identità collettiva del jeans, come primo capo unisex, all’identità individuale, come indumento che si carica di senso assieme al proprio vissuto, così duttile da essere facilmente personalizzabile. E voi cosa preferite? Effetto scolorito, effetto strappato o effetto consumato? Ma è pur sempre un effetto. Il jeans nasce come pantalone che va scolorito, strappato, consumato in giro per le panchine del mondo, è questa la sua essenza: un capo globale che narra una storia personale. Certamente fa parte di una costruzione poco significativa, ma è pur sempre un tentativo di differenziazione, che sarà sempre una necessità della persona.

Dark style: odio o amore incondizionato per la vita?

A chi non è mai capitato di notare per strada o sulla metro dei soggetti dall’aria cupa e “vampiresca”? Solitamente portano abiti neri con neanche una nota di colore addosso, a eccezione dei capelli e degli accessori sgargianti: lo stile “dark” o “gothic” è ormai un fenomeno ampiamente diffuso, in Italia quanto nel resto d’Europa ( molti giovani italiani sarebbero disposti a tutto pur di fare shopping nei negozi londinesi di Camden Town! ). Anche l’alta moda della collezione autunno inverno 2010-2011 propone un guardaroba che spegne ogni colore per lasciare spazio al lato oscuro che c’è in noi; certamente richiama l’ eleganza glamour del total black attraverso mini gonne, leggins fetish, lunghi cappotti e pizzi un po’ ovunque. Ma, tornando alla tendenza urbana, c’è chi lo definisce un modo di ribellarsi all’omologazione, c’è chi la considera una moda come tutte le altre e chi lo vede e lo pratica come un modus vivendi. Nell’immaginario comune prevale spesso l’idea, un pò confusa, di gruppi legati al satanismo, alla musica rock e metal, all’odio per la vita e tutti i suoi aspetti gioiosi. E’ davvero così? Oppure la considerazione socialmente strutturata è meramente superficiale? Torniamo un po’ indietro nel tempo: solo così possiamo constatare quanto ciò che sembrerebbe estraneo al nostro carattere mediterraneo, socievole, italiano, sia profondamente legato al nostro sviluppo culturale, a partire dalla nostra stimata letteratura e tradizione artistica. Dall’ Ottocento, in tutta Europa si è diffusa un’atmosfera di tramonto, decadenza. In una società sempre più meccanizzata, il trauma umano di non riconoscersi più in qualcosa che lui stesso ha creato porta a vari effetti: in primo luogo l’artista, il letterato e l’intellettuale diventano delle figure emarginate e perdono la loro “aureola”,  ceduta violentemente a chi produce, consuma, accumula profitto. Come potrebbe l’intellettuale esprimersi liberamente in un clima così poco creativo? Il mondo reale non da ispirazione sufficiente? Bene, allora è il momento di  rivolgersi a un altro mondo, alla sfera più spontanea, originaria e vera che ci sia, quella interiore. Il ritorno all’io da la possibilità di esprimere nella poesia, nell’ arte, nella letteratura, quello che l’uomo aveva ignorato per troppo tempo: se stesso. Si era data priorità a ciò che la società aveva cucito addosso, ma ora è giunto il momento di liberarsi di queste vesti e porsi in maniera diversa nei confronti del mondo, di farsi delle domande sulla propria vita e su tutto ciò che comporta soluzioni di certo poco consolatorie! Si instaura una nuova sensibilità nei confronti della finitudine e di tutte le situazioni limite, come la nascita, la sofferenza, la morte, tutte tematiche affrontate dai giganti della letteratura novecentesca: da Kafka a Camus nel panorama europeo, e in Italia da Ungaretti, nella concezione della vita come “naufragio di speranze”, a Montale, nei limiti esistenziali del suo “meriggiare pallido e assorto”, da Quasimodo a Saba. Il costume “esistenzialistico” , che riflette queste istanze artistiche e culturali, si diffuse ampiamente ed era proprio di alcune avanguardie giovanili, riconoscibili per determinati modi di vestire o di portare i capelli facilmente affiancabili ai “dark” dei giorni nostri. Nonostante le sue forme superficiali e spesso grottesche, questa tendenza ha rappresentato un vero e proprio anello di congiunzione, e soprattutto è valso come protesta contro i conformismi e le false sicurezze. Detto ciò, alcuni modi di vestire sono da considerare come semplici manifestazioni di personalità,  o sono indice di consapevolezza e accettazione della vita anche nel suo lato più buio? E’ questo che spesso mettiamo da parte per pura comodità? Sicuramente c’è chi si adatta alla moda “dark” per accettazione da parte di qualcuno o per costruzione di una maschera, ma non si può pensare a tutti coloro che vivono questa tendenza come soggetti che odiano la vita: probabilmente molti di questi sono coloro che hanno un rapporto più concreto con l’esistenza, che è altrettanto concreta, e la vivono più di tutti nella sua totalità. Ciò che fanno è solo riflettere il loro mondo all’esterno come libera forma di espressione e magari sperando che qualcuno, un giorno, non veda in loro solo le tenebre ma anche uno spiraglio che fa luce su aspetti della vita che riguardano tutti e che spesso dimentichiamo.