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lunedì 2 aprile 2012

“Dalì. Un artista, un genio”. Il maestro visionario torna nella Capitale dopo 60 anni.


“Se giochi a fare un po’ il genio, poi lo diventi” disse un tempo Salvador Dalì. Un motto affermato e incarnato nella sua stessa figura: un artista nel vero senso della parola, amante e fautore di ogni forma estetica, capace di andare ben oltre quest’ultima e rappresentarne un contenuto senza limiti e senza regole imposte dalla pura razionalità. E’ proprio questo che fa insegnamento alla mostra allestita al Vittoriano, “Salvador Dalì. Un artista, un genio”. Sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, dopo quasi sessant’anni dall’ultima retrospettiva, ritorna nella capitale una mostra grandiosa dedicata al celebre maestro catalano, e come afferma la stessa direttrice del “Centro per gli studi daliniani alla Fundaciò Gala-Salvador Dalì”, c’è da sottolineare l’importanza e la rarità di questo evento, che trova collaborazioni tra Spagna e Italia solo in occasione di progetti di una certa rilevanza. La mostra inaugurata nella capitale l’8 Marzo, che si protrarrà al Complesso del Vittoriano fino al 1° Luglio, segue un doppio filo conduttore: da un lato raccontare non solo il Dalì artista, ma anche il Dalì uomo, genio, schizofrenico, quella mente nutrita di un’immaginazione fuori controllo, spietatamente realista nella descrizione di ciò che tuttavia è altamente visionario; dall’altro vuole raccontare la storia “felice” tra Salvador Dalì e l’Italia. L’artista mancava a Roma dal 1954, anno della mostra a Palazzo Pallavicini Rospigliosi, e qui potè finalmente ammirare dal vivo le opere dei Maestri rinascimentali, in particolare Raffaello, con cui tentò di confrontarsi per tutta la vita. Dunque Dalì frequentò a lungo l’Urbe e il nostro Paese, metabolizzandone le suggestioni e ricevendone continui spunti di ideazione e innovazione creativa, lavorando anche a progetti, costumi, scenografie, in collaborazione, fra l’altro, con Luchino Visconti. Da qui è facile dedurre le ascendenze italiane dei dipinti di Dalì, riscontrabili persino nei cartoon elaborati con Walt Disney, in cui le sculture dell’antichità e le atmosfere tipiche di Giorgio de Chirico e Gino Severini fanno da silenzioso protagonista. Genio dalle mille sfaccettature, abile raffiguratore e comunicatore, Dalì ha saputo mutare le umane angosce e le proprie personali manie in una ricerca meravigliosa, quel “meraviglioso” che lo stesso André Breton, teorico del Surrealismo, considerava il fine di ciò che possa essere degno di essere chiamato “arte”. La mostra, attraverso un percorso di ben 103 opere, tra cui olii, disegni e acquerelli, e più di 100 documenti tra filmati, lettere e oggetti, vuole tessere il filo eccentrico e affascinante che fa di Dalì uno degli artisti più famosi e amati della contemporaneità. Ma questa contemporaneità, come accoglie Dalì, frutto di quella stessa contemporaneità che ha risucchiato tutti noi nel vortice nel materialismo? Salvador Dalì ha avuto un successo che si è rivelato essere un’arma a doppio taglio: piace a tutti ma la sua interpretazione viene spesso fuorviata e ridotta a semplice stilismo da apprezzare in quanto tale. L’interpretazione è sempre una fusione di orizzonti, in cui la nostra lettura deve incrociarsi con ciò che ha prodotto l’oggetto, in questo caso l’opera d’arte. Da cosa nasce questa pittura onirica, fatta di slittamenti di senso, accociazioni libere e automatismo fantastico? Attraverso le scoperte freudiane del primo Novecento l’uomo venne messo di fronte alla verità su se stesso: quasi la totalità dei pensieri fluisce sotto il livello della coscienza. Davanti a ciò l’uomo, ma soprattutto l’artista contemporaneo, vede confermato il progressivo svuotamento dei valori occidentali, e vedendo sgretolarsi sotto gli occhi l’identità che la storia gli ha costruito, viene abbandonato ad una condizione di profondo ed “inquietante” estraniamento. La crisi che ha investito il soggetto e il suo senso di fiducia nel mondo, comprese le contraddizioni date da una società meccanizzata in cui gli oggetti prodotti dall’uomo hanno ormai il controllo sull’uomo stesso, ha manifestato tutti i sintomi del disagio interiore di fronte ad uno spaccato storico-sociale fondato su valori borghesi e positivistici, risolvendosi costruttivamente nell’ “espressione”, nella proiezione di esigenze interne pure verso l’esterno: in tal modo l’io si sospende e cede la parola ad una realtà primigenia e astratta. Come avrebbe potuto l’artista, insofferente nei confronti di questo sistema, adottarne i valori? Bisognava dar vita ad un nuovo sistema di idee: Salvador Dalì ne è stato il supremo creatore, produttore di linguaggi diversi e originali, mistici e inconoscibili, cercando di svelarne al mondo l’essenza, a cui l’uomo ordinario il più delle volte non può accedere perché collocato dietro le apparenze.

lunedì 30 maggio 2011

Dark style: odio o amore incondizionato per la vita?

A chi non è mai capitato di notare per strada o sulla metro dei soggetti dall’aria cupa e “vampiresca”? Solitamente portano abiti neri con neanche una nota di colore addosso, a eccezione dei capelli e degli accessori sgargianti: lo stile “dark” o “gothic” è ormai un fenomeno ampiamente diffuso, in Italia quanto nel resto d’Europa ( molti giovani italiani sarebbero disposti a tutto pur di fare shopping nei negozi londinesi di Camden Town! ). Anche l’alta moda della collezione autunno inverno 2010-2011 propone un guardaroba che spegne ogni colore per lasciare spazio al lato oscuro che c’è in noi; certamente richiama l’ eleganza glamour del total black attraverso mini gonne, leggins fetish, lunghi cappotti e pizzi un po’ ovunque. Ma, tornando alla tendenza urbana, c’è chi lo definisce un modo di ribellarsi all’omologazione, c’è chi la considera una moda come tutte le altre e chi lo vede e lo pratica come un modus vivendi. Nell’immaginario comune prevale spesso l’idea, un pò confusa, di gruppi legati al satanismo, alla musica rock e metal, all’odio per la vita e tutti i suoi aspetti gioiosi. E’ davvero così? Oppure la considerazione socialmente strutturata è meramente superficiale? Torniamo un po’ indietro nel tempo: solo così possiamo constatare quanto ciò che sembrerebbe estraneo al nostro carattere mediterraneo, socievole, italiano, sia profondamente legato al nostro sviluppo culturale, a partire dalla nostra stimata letteratura e tradizione artistica. Dall’ Ottocento, in tutta Europa si è diffusa un’atmosfera di tramonto, decadenza. In una società sempre più meccanizzata, il trauma umano di non riconoscersi più in qualcosa che lui stesso ha creato porta a vari effetti: in primo luogo l’artista, il letterato e l’intellettuale diventano delle figure emarginate e perdono la loro “aureola”,  ceduta violentemente a chi produce, consuma, accumula profitto. Come potrebbe l’intellettuale esprimersi liberamente in un clima così poco creativo? Il mondo reale non da ispirazione sufficiente? Bene, allora è il momento di  rivolgersi a un altro mondo, alla sfera più spontanea, originaria e vera che ci sia, quella interiore. Il ritorno all’io da la possibilità di esprimere nella poesia, nell’ arte, nella letteratura, quello che l’uomo aveva ignorato per troppo tempo: se stesso. Si era data priorità a ciò che la società aveva cucito addosso, ma ora è giunto il momento di liberarsi di queste vesti e porsi in maniera diversa nei confronti del mondo, di farsi delle domande sulla propria vita e su tutto ciò che comporta soluzioni di certo poco consolatorie! Si instaura una nuova sensibilità nei confronti della finitudine e di tutte le situazioni limite, come la nascita, la sofferenza, la morte, tutte tematiche affrontate dai giganti della letteratura novecentesca: da Kafka a Camus nel panorama europeo, e in Italia da Ungaretti, nella concezione della vita come “naufragio di speranze”, a Montale, nei limiti esistenziali del suo “meriggiare pallido e assorto”, da Quasimodo a Saba. Il costume “esistenzialistico” , che riflette queste istanze artistiche e culturali, si diffuse ampiamente ed era proprio di alcune avanguardie giovanili, riconoscibili per determinati modi di vestire o di portare i capelli facilmente affiancabili ai “dark” dei giorni nostri. Nonostante le sue forme superficiali e spesso grottesche, questa tendenza ha rappresentato un vero e proprio anello di congiunzione, e soprattutto è valso come protesta contro i conformismi e le false sicurezze. Detto ciò, alcuni modi di vestire sono da considerare come semplici manifestazioni di personalità,  o sono indice di consapevolezza e accettazione della vita anche nel suo lato più buio? E’ questo che spesso mettiamo da parte per pura comodità? Sicuramente c’è chi si adatta alla moda “dark” per accettazione da parte di qualcuno o per costruzione di una maschera, ma non si può pensare a tutti coloro che vivono questa tendenza come soggetti che odiano la vita: probabilmente molti di questi sono coloro che hanno un rapporto più concreto con l’esistenza, che è altrettanto concreta, e la vivono più di tutti nella sua totalità. Ciò che fanno è solo riflettere il loro mondo all’esterno come libera forma di espressione e magari sperando che qualcuno, un giorno, non veda in loro solo le tenebre ma anche uno spiraglio che fa luce su aspetti della vita che riguardano tutti e che spesso dimentichiamo.