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domenica 15 gennaio 2012

Miss Sixty: una rilettura contemporanea degli eclettici Seventies.

Sfogliare un vecchio album di foto e tuffarsi qualche decennio fa, nell’epoca dell’incertezza, delle lotte pacifiste, dell’obiezione di coscienza, della libertà sessuale, dei diritti strappati e gridati, della piccola borghesia sfiduciata. Potrebbe essere tutto questo ciò che ha ispirato i creatori del mitico brand Miss Sixty per questo inverno 2011-2012, interpretando le molteplici sfaccettature dello stile che fu, dall’anti-fashion all’inclinazione folk tipica della Westwood alle ispirazioni date dalla minimal art: il concetto, l’idea, è più importante dell’opera, perciò la forma stessa si traduce in qualcosa di “minimale”, in contrapposizione al consumismo e all’attenzione per il particolare tipici della pop art, riducendo l’arte in elementi essenziali, forme geometriche ed elementari, a metà tra architettura e figurazione. Ed ecco che prendono vita abiti dalle linee pulite, che fasciano e allo stesso tempo distorgono la figura, come i mitici pantaloni scampanati, meglio conosciuti come “a zampa d’elefante”. L’inclinazione folk spazia dalle maglie oversize a una rivisitazione della pelliccia in perfetto stile easy chic (ed eco-friendly), marrone a collo alto, stretta in vita e a manto striato, o più grintosa, in tonalità verde acido o voluminosa con sfumature bianche e nere. Una moda eclettica e funzionale, naturale e informale. Negli anni ’70 l’universo del fashion era più che mai visto come uno dei sistemi imposti dalla società industrializzata per limitare la libertà, in un clima in cui i giovani contestatori avevano già contribuito ad una rivoluzione nella moda e ne erano diventati i protagonisti, slegati da vincoli e costrizioni. Perciò la moda non aveva più alcun principio fisso, nasceva spontaneamente dall’iniziativa personale, dal “fai da te”, dal piacere di mescolare tutto perché tutto era permesso, purchè si creasse un’alternativa estetica,  il riflesso di una ricerca e di una speranza verso un’alternativa sociale. Il grande sarto non era più il dittatore della moda: magari un giorno, neanche i vizi e i consumi della politica sarebbero stati i dittatori delle masse? Sta di fatto che molti grandi atelier chiusero, e quelli che sopravvissero crearono delle linee prêt-à-porter. Il capo simbolo ovviamente fu il jeans, indossato da uomini e donne di tutte le classi sociali e in qualsiasi occasione, una sorta di sintesi di tutti gli ideali di uguaglianza e libertà diffusi con fervore per un ventennio. Miss Sixty ha ben selezionato alcuni degli elementi “storici” che hanno contributo ad una svolta nelle tendenze a partire da fine anni ‘60, mantenendo continuamente l’attenzione sugli elementi chiave di un vestiario che è tutto fuorchè vuoto di contenuti e femminilità: tante le novità e le sperimentazioni, in cui spiccano i mix di tele denim caratterizzati da lavaggi vintage e le nuances che creano un particolare effetto a righe, i modelli a palazzo e la camicia in denim con cuciture e bottoni oro a contrasto. Ovviamente non mancano gli accessori, anch’essi realizzati in denim: un gioco di stile che conquista, in armonia con il look naturale e un po’ hippy, decisamente Seventies, tanto nei colori quanto nei materiali.





lunedì 30 maggio 2011

Il “must” jeans, da icona rivoluzionaria a simbolo della globalizzazione.

Cosa ci risponderebbe la più sfegatata delle fashion victims se le dicessimo che i suoi irrinunciabili jeans non sono altro che semplici pantaloni da lavoro? Probabilmente ci farebbe una smorfia di sdegno e continuerebbe a dedicarsi alle sue compere, jeans compresi.  Ma la realtà è proprio questa, nonostante sia poco conosciuta: i cosidetti “blue-jeans” sono nati come pantaloni dal tessuto leggero e particolarmente resistente, ideali per i marinai di Genova. Perché proprio Genova? Ecco un’altra curiosità. I jeans, come tutti invece potrebbero pensare, non sono nati in America ma in Italia. Risalgono esattamente al XV secolo, come stoffa utilizzata per coprire la mercanzia navale ed esportata attraverso il porto antico di Genova, che in quell’epoca era il simbolo del fervore commerciale: è proprio da qui che i blue-jeans inizieranno il loro lungo viaggio, che dura ormai da più di cinquecento anni!  Blue ne indica il colore,  jeans la città d’origine ( dal francese “Bleu de Gênes” ), mentre l’appellativo “denim” sta per “de Nîmes”, la città da cui proveniva questa tela color indaco. I commercianti di Nîmes scelsero il porto di Genova come punto di partenza per le merci destinate al Nord America. E’ qui che viene prodotto questo semplice pantalone da lavoro, su particolare richiesta della comunità mineraria, e lanciato a S. Francisco da Levi Strauss; le caratteristiche base del jeans moderno ci sono già tutte: taglio a cinque tasche, bottoni, impunture, rivetti. Nel dopoguerra diventa un indumento da tempo libero, comodo e colorato, per poi tornare nella nativa Europa assieme al boom del casual, diffuso tra i giovani dai primi idoli del cinema (Marlon Brando, James Dean…) e del rock n’ roll. La storia dei jeans continua, segnata dal proibizionismo americano di indossarli a scuola: saranno riammessi all’università ai tempi di Bob Dylan. Il jeans incarna progressivamente la radicalità della ribellione giovanile, dell’insubordinazione urbana; è indice della volontà giovanile di prendere le distanze dalla monotonia del mondo adulto, dall’ ipocrisia di una società omologata. Non a caso, i “sessantottini” scelgono i blue-jeans come uniforme del loro “esercito” per le lotte ai diritti e alla libertà individuale, entusiasmati dall’esplosione del movimento hippy. In particolare, verrà adottato a divisa collettiva il mitico modello Levi’s 501, simbolo dell’ideologia rivoluzionaria, dell’antimoda e dell’anti-perbenismo conservatore e borghese. Allora com’è stato introdotto nel mondo della moda? Dal ‘68 il jeans diventa il primo capo globalizzato, e oggi lo è più che mai, senza pensabili flessioni in tal senso: con il passare dei decenni si è trasformato, seguendo più le fantasie passeggere degli stilisti che l’entusiasmo delle contestazioni politiche. Con il declino di questa atmosfera effervescente infatti, i brand predominanti nel panorama commerciale si impadroniscono del jeans per introdurlo nell’ “armadio medio” della popolazione, effettivamente riuscendoci: avrà un grande successo sopratutto il jeans firmato, data la novità che rappresentava. Dagli anni ‘80 il jeans è diventato un indumento di “lusso”, dato che gran parte delle ditte di abbigliamento produce una propria linea di jeans, da Valentino a Fiorucci, da Armani a Gas, accanto alle leggendarie Levis, Lee e Diesel. Insomma, jeans è diventata “la parola più globalizzata assieme alla pizza”, come afferma Remo Guerrini nel suo libro “Bleu de Gênes”. Quali sono gli elementi che hanno proiettato in maniera così generalizzata i jeans sul modo di vestire e sull’intera società moderna? Sicuramente è un fenomeno che riflette la costruzione dell’identità personale nei decenni, riattraversandone i mutamenti sociali: dall’identità collettiva del jeans, come primo capo unisex, all’identità individuale, come indumento che si carica di senso assieme al proprio vissuto, così duttile da essere facilmente personalizzabile. E voi cosa preferite? Effetto scolorito, effetto strappato o effetto consumato? Ma è pur sempre un effetto. Il jeans nasce come pantalone che va scolorito, strappato, consumato in giro per le panchine del mondo, è questa la sua essenza: un capo globale che narra una storia personale. Certamente fa parte di una costruzione poco significativa, ma è pur sempre un tentativo di differenziazione, che sarà sempre una necessità della persona.