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lunedì 30 maggio 2011

No al Sanblasting method: Moda killer o dalla parte dei lavoratori?

I jeans scoloriti, dall’aspetto vissuto, non progressivamente scoloriti dalle abitudini e dai gesti quotidiani, possono certamente dare un bell’effetto, ma pochi sanno che possono uccidere: non chi li indossa, ma chi li produce. Nel Gennaio 2011 è partita la campagna internazionale contro il processo di sabbiatura, con cui il denim, il tessuto del jeans, assume uno stile vintage. Questo metodo, definito “sandblasting” è il trattamento più a buon mercato e ottimo dal punto di vista stilistico poiché produce i risultati migliori: consiste infatti nello sparare la sabbia ad alta pressione attraverso un compressore, e l’operaio può così manovrare l’effetto sul tessuto in maniera molto precisa. Insomma, un tocco in più a cui gli amanti del jeans scolorito non possono proprio rinunciare, ma che purtroppo ha effetti negativi inimmaginabili: gran parte dei lavoratori che praticano il metodo sandblasting si ammala di silicosi. Infatti, attraverso l’inalazione delle polveri che contengono la silice della sabbia,  viene contratta molto facilmente questa malattia, che risulta irreversibile, incurabile e spesso mortale. In Turchia il processo di sanblasting ha avuto inizio nel 2000 ed è stato bloccato nel 2009, dopo le denunce di sindacati e associazioni, quando purtroppo si era già stimata una percentuale di affetti da silicosi che superava ben il 50% dei lavoratori. I morti accertati da Novembre 2010 sono 44 e nonostante il Ministero della sanità abbia deciso di fornire (giustamente) cure gratuite, i produttori si sono limitati a trasferire gli ordini di sabbiatura verso altri paesi, come se in tal modo venisse risolta magicamente questa condizione drammatica dei lavoratori. La campagna contro il sandblasting method è portata avanti da Clean Clothes, una rete di organizzazioni sindacali e organizzazioni non governative europee, e ha suscitato un’eco vastissima. La maggior parte dei jeans slavati destinati alla vendita in Europa verrebbero trattati in paesi molto poveri come il Bangladesh, l’India, la Cambogia, il Messico, e soprattutto senza alcun riguardo per i diritti dei lavoratori: i laboratori di sabbiatura non sono altro che l’ultimo anello della filiera di produzione, in cui i controlli sono davvero scarsi. Basti pensare che il “tetto”previsto dalle direttive comunitarie per la percentuale di silice è dello 0,5%, mentre la sabbia che viene utilizzata in questi paesi ne contiene fino all’80%, per non parlare della totale mancanza delle misure protettive fondamentali, come semplici  guanti, tute o mascherine. Ciò a cui mira questa campagna è mettere fuori legge la sabbiatura, non acquistare jeans sabbiati e in particolare far pressione sulle aziende del settore tessile in modo che aboliscano definitivamente questa tecnica; mira dunque a concretizzare l’appello ai grandi marchi, a cui alcuni hanno già risposto. Levi-Strauss ed H&M hanno annunciato che bloccheranno la vendita di jeans sabbiati, Gucci ha elaborato una strategia per abolire il sanblasting method dalle sue fabbriche, e Pepe Jeans ha sviluppato da tempo una “politica sociale corporativa” in materia di salute e sicurezza: nei lavaggi utilizzati per i jeans, Pepe Jeans dichiara infatti che le fabbriche con cui collabora non fanno uso di metodi di invecchiamento che utilizzano la sabbia, ma sfruttano la pressione dell’acqua, tecnica totalmente priva di rischi. Non vi è stata invece alcuna risposta da altri big come Cavalli, Armani e Dolce&Gabbana.  E’ proprio a loro che è destinata la “tasca virale”, il quale logo è appunto “Nuoce gravemente alla salute”. Se quindi durante lo shopping vi dovesse capitare per le mani un paio di jeans sabbiati, occhio alla tasca posteriore, in cui potreste decidere voi stessi di applicare questa etichetta poco convenzionale, non per questione di gusti, ma per questione di diritti umani, per dire basta ai jeans che uccidono e soprattutto per dire basta alle aziende che sfruttano la manodopera a basso costo per accumulare profitto a danno di lavoratori ignari dei rischi che corrono ogni giorno.

Emancipazione femminile, evoluzione nello stile.

I cambiamenti sociali, si sa, non sono circoscritti, ma vengono riflessi in ogni sfera del reale e non solo: prima di tutto si manifestano nella sfera artistica, in quel mondo che lancia un ponte tra sogno e realtà a tutti, ma che pochi possono comprendere, interpretare ed intuire prima che il cambiamento venga a “bussare”materialmente alla nostra porta. La moda è un’espressione sottile di questa conoscenza più originaria e sensibile, precorre le atmosfere che viviamo e che vivremo, ha un “fiuto” particolare. Nel corso del ‘900 questa qualità quasi preveggente si è manifestata in una delle lotte fondamentali dell’umanità per l’uguaglianza e la democrazia, quella per l’emancipazione femminile; il ruolo della donna ha compiuto un percorso in continua ascesa, che nel mondo della moda ha corso lungo quel doppio canale per cui le tendenze anticipano ma allo stesso tempo confermano il perenne riassestamento sociale. Il ‘900 è stato un secolo che l’uomo ha quasi dovuto rincorrere per stare ai tempi, un po’ come la donna stessa e la sua affermazione che minacciava di spostarlo dal podio. Dalla seconda rivoluzione industriale tutto ciò fu molto evidente: in Inghilterra le fabbriche tessili iniziarono a determinare una grande trasformazione nel vestire, fornendo buoni tessuti a prezzi sempre meno elevati e moltiplicando quelli leggeri, colorati, esotici e decorativi, decisamente adatti per l’estate e i sabati danzanti, per una donna che ormai poteva frequentare ambienti mondani di ogni genere. Tra il 1890 ed il 1910  l’affermarsi della fabbricazione in serie abbassò i costi e rese accessibili gli abiti alla moda anche ai ceti meno abbienti, soprattutto dopo la distribuzione sempre più diffusa nei grandi magazzini. La moda viene presentata in tutto il suo splendore dagli anni ’50 in poi: il mondo viene travolto dal “New Look” del francese Christian Dior, tra spalle scoperte e scollature vertiginose, e Parigi diventa la capitale della moda; con l’arrivo del rock n’ roll nelle sale da ballo c’è spazio solo per reggicalze, mini abiti e soprattutto minigonne, grazie alla novità introdotta dalla stilista Mary Quant. La moda diventa sempre più unisex, prende ispirazione più dalla strada che dalle sartorie e l’etnico domina su tutto, anche grazie alla libertà morale e sessuale veicolata dagli hippies, i primi a rifiutare il consumismo e…la biancheria intima! Negli anni ’70 il punk domina Londra e non solo, e il livello di inibizione si abbassa sempre di più non solo per le minigonne, ma anche per le calze rete e i tacchi alti. Negli ultimi decenni la mentalità comune ha subito un’apertura notevole, in particolare da quando la donna ha iniziato ad essere sempre più presente nel mondo del lavoro: compaiono i pantaloni e la gonna pantalone, tutti capi funzionali nella quotidianità e nella battaglia femminile per l’uguaglianza dei diritti. Una delle figure emblematiche nella rivoluzione del concetto di femminilità è stata sicuramente Coco Chanel, che seppe interpretare al meglio lo spirito modernista della sua epoca, prefiggendo una nuova immagine della donna, libera, indipendente dall’uomo, moderna e all’avanguardia: ha saputo dar voce al bisogno di un’effettiva riforma sociale del ruolo e dello stile di vita femminile, unendo eleganza e raffinatezza alla praticità e al comfort. Negli ultimi decenni nella moda non si può più distinguere uno stile preciso che definisca la donna, perché la donna non è più in gabbia, può permettersi tutto, dall’essenzialità alla frivolezza, e il ruolo dello stilista è ormai quello di un consigliere che non impone nulla: si distruggono le forme, si miscelano i colori, si fondono tendenze contrastanti, all’insegna di una nuova modalità di pensiero, più dinamica e meno bigotta. Il tempo scorre inesorabilmente, e nel nostro mondo non c’è più spazio per una ragione restrittiva e costrittiva che orienti le nostre scelte, tutto è possibile e tutto cambia. L’evoluzione del ruolo femminile nella società ci dimostra che legarsi troppo al passato e all’abitudine, rimanendo scettici e timorosi, ci lascia fermi al punto di partenza senza possibilità di intravedere una meta, di reinventarci e progredire: questo cammino riguarda tutti ma…in tacchi ha indubbiamente più stile.