giovedì 26 aprile 2012

Iris Van Herpen: la moda come sinestesia e scultura emotiva.


Moda come scultura, scultura come arte, arte come sfida continua: quella sfida perpetua tra un’idea disegnata nella mente e la volontà di renderla plastica, tangibile a tutti. E’ in questo orizzonte che si inserisce la genialità creativa di Iris Van Herpen, giovane e talentuosa fashion designer olandese. A soli ventisette anni, Iris è già protagonista di grandiose mostre e i suoi lavori vengono contesi tra i più importanti musei della moda: fin dalla laurea al prestigioso ArtEZ Institute of Arts nel 2006, muove i suoi primi passi nel fashion system con decisione e soprattutto con le idee chiare, facendo esperienza con Alexander McQueen a Londra e Claudy Jongstra ad Amsterdam, per iniziare poi il suo personalissimo cammino di ricerca. La sua è una sperimentazione dell’insolito equilibrio tra lavoro artistico tradizionale e innovazione, una sospensione tra incredibile abilità artigianale e tecnologie d’avanguardia. Perciò il Groninger Museum, da sempre attento al lavoro creativo connesso alla moda, ha deciso di dedicare alla giovane olandese una vasta personale dove vengono ripercorse le sue creazioni dal 2008 ad oggi. Ma non solo, grazie alle sue creazioni organiche e visionarie la stilista olandese si è conquistata nel 2011 la prestigiosa qualifica di membro della Chambre Syndicale de la Couture e, da alcune stagioni, i suoi virtuosismi a base di volumi mutanti, tacchi a zanne in vetro e abiti di cristallo zampillanti come fontane sfilano sulle passerelle dell'alta moda parigina. Iris Van Herpen è stata ospite, per la prima volta in Italia, il 19 Aprile presso il Maxxi B.A.S.E, in occasione di un incontro promosso dallo IED, Istituto Europeo di Design, nell’ambito del ciclo di conferenze “Talking IED”, accolta dal coordinatore del master IED in Fashion Marketing and Communication Tommaso Basilio e dal giornalista Federico Poletti. Iris si definisce impulsiva, trae ispirazione dai libri e dalle passeggiate, ama il nero e sogna una sfilata senza gravità, ma soprattutto è una celebrazione vivente della creatività senza limiti. Ciò che trasmette è un’immaginazione legata alla dimensione urbana, che corre sul “tapis roulant” della contemporaneità per certi versi anticipandola con mosse “futuriste e rigeneratrici”, per altri richiamando l’antica sapienza artigianale, con i suoi abiti 3D fatti a mano: da vita a creature mitologiche tutte nuove, utopie disegnate a cui viene data anima. Fautrice del concetto di moda come “espressione d’arte legata a sé stessa e al suo corpo” l’artista cerca di far comprendere che la moda è prima di ogni cosa una manifestazione artistica e non solo uno strumento funzionale e commerciale, affermando di “voler realizzare abiti capaci di piegare la moda all’estrema contraddizione tra bellezza e rinnovamento, rielaborando la realtà e valorizzando l’individualità”. Il risultato è una moda dall’aura visionaria e irreale, che colpisce e incanta gli addetti ai lavori ed è cercata da star e icone del calibro di Lady Gaga e Björk. Il segreto è, forse, nel suo personale metodo di lavoro, come ci racconta: “nella mia mente esistono solo concetti” e “non parto mai a costruire una nuova immagine da una già esistente”. Nella sua ricerca “le forme dovrebbero completare e cambiare l’immagine corporea in base alle emozioni. Il movimento, così essenziale per e dentro il corpo, è un elemento altrettanto importante nel mio lavoro”. I suoi abiti sono architetture tridimensionali dentro cui i cromatismi risuonano e chiedono un contatto fisico: imbastisce filamenti in pelle, lamine d’oro, poliammide, fogli trasparenti, componendo intrecci stratificati, riflessi ingannevoli, nodi complessi. La percezione stessa dei capi e il modo di fare passerella vengono completamente rivoluzionati.  Vedere gli abiti non basta, bisogna anche poterli annusare, toccare e ascoltare. La sinestesia non è solo una figura retorica, ma una realtà transensoriale, intessuta nelle trame di Iris. 




lunedì 2 aprile 2012

Rave party, la tendenza sociale che diventa rituale estatico



Rave party: un festival di drogati all’aria aperta? Forse si, forse no. Sicuramente si tratta di un evento di massa in cui centinaia, e a volte migliaia, di persone di età diverse si riuniscono nel ballo e nell’ascolto di musica per un arco di tempo abbastanza prolungato, che va dalle 12 alle 24 ore, o addirittura per diversi giorni. Questi grandi incontri vengono solitamente organizzati in aree remote delle città, all'aperto o in grandi magazzini, in cui si può tranquillamente campeggiare. Fin dall’inizio queste feste sono state caratterizzate dall'elemento dell'illegalità: i raves infatti, prevedono solitamente l'occupazione abusiva di spazi privati in condizione di abbandono. L’origine di questa “tendenza sociale” si può far risalire agli anni settanta, quando, dal raduno di Woodstock in poi, si diffuse lo spirito del festival, dell'aggregazione di differenti nazionalità, età e classi sociali, del ritrovo collettivo, in un clima di piena contestazione e denuncia dei problemi esistenti nel mondo occidentale; ma il vero aspetto peculiare che definisce un rave è il tipo di musica che viene suonata: non può mancare quella elettronica di vari generi (Techno, Acid, Goa, Trance) al cui ritmo incalzante i giovani si muovono sotto l'effetto di luci stroboscopiche. Ma basta solo questo per tollerare dei veri e propri “tours de force” musicali? Molti ragazzi che prendono parte a questo tipo di feste presentano stati alterati di coscienza a causa dell'assunzione di un mix di alcool e sostanze stupefacenti. Soprattutto per questo, i media si stanno progressivamente interessando a questo fenomeno culturale, indagando con curiosità sulle modalità costitutive del rave, per capire se gestirlo come un grosso problema sociale capace di degenerare i giovani o semplicemente come una forma d’arte, perché la musica è primariamente questo. Chi si occupa di riportare i fatti spesso si concentra esclusivamente sull’utilizzo di droghe e sostanze psicotrope, non considerando il presupposto della tipica serata rave: partecipare a un grande incontro in cui ci si allontana dalla routine stereotipata per godersi una notte di pura musica, che il più delle volte è difficile da trovare nei negozi perché poco commerciale. La stragrande maggioranza della società si chiede perché alcuni giovani preferiscano recarsi in posti così lontani dai centri, quando si hanno a disposizione tante discoteche più facili da raggiungere: ecco, la risposta è già nella domanda. Come affermano T. Adorno e M. Horkheimer ne “L’industria culturale”, la civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza, dando vita ad un sistema in cui la razionalità tecnica ed economica è la razionalità del dominio stesso: è il carattere della società estraniata da se stessa, in cui il potere del capitale si manifesta anche nell’affluenza degli abitanti negli stessi centri, a scopo di lavoro e di divertimento, come produttori e consumatori. In un rave viene data vita a un “altro” popolo, in cui l’età o lo status socio-economico non importano,  in cui non c’é un buttafuori che non ti lascerà passare perché non sei vestito in un certo modo: ed ecco che a un rave si presentano tanti individui dall’aspetto per niente canonico, dalla rasatura parziale o totale dei capelli ai dilatatori e ai numerosi piercing, dai colori fluo dei capelli agli accessori zebrati, leopardari o dai colori accesi. L’unica regola è rompere con i clichés che nella società dominante hanno creato quel “circolo di manipolazione” che l’unità del sistema stringe sempre di più. L’unica soluzione è riunirsi in quei luoghi che la civiltà stessa ha abbandonato senza ragione, riportandogli vita per una notte, una vita che pulsa nella sua forma più edonistica, e che in questi spazi improvvisati cerca di liberare i giovani dal peso dell’incertezza di un futuro che il sistema non è stato capace di stabilire e assicurare. La musica, nella sua capacità di unire tutti e annullare le differenze, spinge a condividere una gioia incontrollabile che va oltre il presunto utilizzo di droghe, e che, nel formare questo magico cerchio può, almeno per una notte, proteggere dagli orrori, dalle atrocità e dalla produzione in serie del mondo che sta fuori. Un villaggio tribale, globale, di massa, che non dipende né dalla legge dell’uomo né da quella dello spazio e del tempo che egli ha creato. Il rave è un tentativo di riscrivere il programma che è stato indottrinato a ognuno sin dalla nascita, una celebrazione della libertà, della tolleranza e dell’armonia: il bisogno che sfugge al controllo centrale viene trattenuto e diffuso da ogni coscienza individuale. “Ricordate che mentre potete fermare un qualsiasi party, in una qualsiasi notte, in una qualsiasi città, non riuscirete mai a spegnere il party intero. Non avete accesso a questo interruttore, non importa quello che pensate. La musica non si fermerà mai.” (Worldwide Raver’s Manifesto)


“Dalì. Un artista, un genio”. Il maestro visionario torna nella Capitale dopo 60 anni.


“Se giochi a fare un po’ il genio, poi lo diventi” disse un tempo Salvador Dalì. Un motto affermato e incarnato nella sua stessa figura: un artista nel vero senso della parola, amante e fautore di ogni forma estetica, capace di andare ben oltre quest’ultima e rappresentarne un contenuto senza limiti e senza regole imposte dalla pura razionalità. E’ proprio questo che fa insegnamento alla mostra allestita al Vittoriano, “Salvador Dalì. Un artista, un genio”. Sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica Italiana, dopo quasi sessant’anni dall’ultima retrospettiva, ritorna nella capitale una mostra grandiosa dedicata al celebre maestro catalano, e come afferma la stessa direttrice del “Centro per gli studi daliniani alla Fundaciò Gala-Salvador Dalì”, c’è da sottolineare l’importanza e la rarità di questo evento, che trova collaborazioni tra Spagna e Italia solo in occasione di progetti di una certa rilevanza. La mostra inaugurata nella capitale l’8 Marzo, che si protrarrà al Complesso del Vittoriano fino al 1° Luglio, segue un doppio filo conduttore: da un lato raccontare non solo il Dalì artista, ma anche il Dalì uomo, genio, schizofrenico, quella mente nutrita di un’immaginazione fuori controllo, spietatamente realista nella descrizione di ciò che tuttavia è altamente visionario; dall’altro vuole raccontare la storia “felice” tra Salvador Dalì e l’Italia. L’artista mancava a Roma dal 1954, anno della mostra a Palazzo Pallavicini Rospigliosi, e qui potè finalmente ammirare dal vivo le opere dei Maestri rinascimentali, in particolare Raffaello, con cui tentò di confrontarsi per tutta la vita. Dunque Dalì frequentò a lungo l’Urbe e il nostro Paese, metabolizzandone le suggestioni e ricevendone continui spunti di ideazione e innovazione creativa, lavorando anche a progetti, costumi, scenografie, in collaborazione, fra l’altro, con Luchino Visconti. Da qui è facile dedurre le ascendenze italiane dei dipinti di Dalì, riscontrabili persino nei cartoon elaborati con Walt Disney, in cui le sculture dell’antichità e le atmosfere tipiche di Giorgio de Chirico e Gino Severini fanno da silenzioso protagonista. Genio dalle mille sfaccettature, abile raffiguratore e comunicatore, Dalì ha saputo mutare le umane angosce e le proprie personali manie in una ricerca meravigliosa, quel “meraviglioso” che lo stesso André Breton, teorico del Surrealismo, considerava il fine di ciò che possa essere degno di essere chiamato “arte”. La mostra, attraverso un percorso di ben 103 opere, tra cui olii, disegni e acquerelli, e più di 100 documenti tra filmati, lettere e oggetti, vuole tessere il filo eccentrico e affascinante che fa di Dalì uno degli artisti più famosi e amati della contemporaneità. Ma questa contemporaneità, come accoglie Dalì, frutto di quella stessa contemporaneità che ha risucchiato tutti noi nel vortice nel materialismo? Salvador Dalì ha avuto un successo che si è rivelato essere un’arma a doppio taglio: piace a tutti ma la sua interpretazione viene spesso fuorviata e ridotta a semplice stilismo da apprezzare in quanto tale. L’interpretazione è sempre una fusione di orizzonti, in cui la nostra lettura deve incrociarsi con ciò che ha prodotto l’oggetto, in questo caso l’opera d’arte. Da cosa nasce questa pittura onirica, fatta di slittamenti di senso, accociazioni libere e automatismo fantastico? Attraverso le scoperte freudiane del primo Novecento l’uomo venne messo di fronte alla verità su se stesso: quasi la totalità dei pensieri fluisce sotto il livello della coscienza. Davanti a ciò l’uomo, ma soprattutto l’artista contemporaneo, vede confermato il progressivo svuotamento dei valori occidentali, e vedendo sgretolarsi sotto gli occhi l’identità che la storia gli ha costruito, viene abbandonato ad una condizione di profondo ed “inquietante” estraniamento. La crisi che ha investito il soggetto e il suo senso di fiducia nel mondo, comprese le contraddizioni date da una società meccanizzata in cui gli oggetti prodotti dall’uomo hanno ormai il controllo sull’uomo stesso, ha manifestato tutti i sintomi del disagio interiore di fronte ad uno spaccato storico-sociale fondato su valori borghesi e positivistici, risolvendosi costruttivamente nell’ “espressione”, nella proiezione di esigenze interne pure verso l’esterno: in tal modo l’io si sospende e cede la parola ad una realtà primigenia e astratta. Come avrebbe potuto l’artista, insofferente nei confronti di questo sistema, adottarne i valori? Bisognava dar vita ad un nuovo sistema di idee: Salvador Dalì ne è stato il supremo creatore, produttore di linguaggi diversi e originali, mistici e inconoscibili, cercando di svelarne al mondo l’essenza, a cui l’uomo ordinario il più delle volte non può accedere perché collocato dietro le apparenze.